«Roba da matti… assurdo!». Esattamente queste sono state le parole che ho pronunciato non appena finito di leggere il romanzo di Shirley Jackson, Abbiamo sempre vissuto nel castello.
Perché questo romanzo è davvero roba da matti, che lascia senza parole nonché con una particolare sensazione di “strano” che corre come un brivido lungo il corpo. Ho letto parecchie recensioni su questo lavoro della Jackson e i lettori si sono nettamente divisi in due fazioni opposte: chi l’ha amato e chi l’ha odiato.
Io sono tra le persone che l’hanno amato, e vi spiego perché.
- La voce narrante, Mary Katherine Blackwood – Merricat – nonché protagonista della storia è brillantemente e meravigliosamente fuori di testa:
- Vive in un mondo tutto suo in cui gli altri non solo sono un “accessorio inutile” ma addirittura malvagi ed evitabili.
- Sotterra oggetti nel terreno limitrofo all’enorme villa in cui vive con zio e sorella, e investe questi oggetti di poteri amuletici, quasi possano tenere lontano disgrazie e sciagure dal suo piccolo nucleo familiare.
- Tratta il suo gatto, Jonas, come fosse una persona – quasi un fidanzato.
- Immagina che la gente che odia (praticamente tutti, all’infuori di zio e sorella) muoia nel più atroce dei modi.
- Ama con tutto il cuore la sorella Constance, che tratta come la cosa più bella e preziosa sulla faccia della terra.
- Nonostante abbia diciotto anni, talvolta parla e si atteggia come fosse una bambina, è trasandata e non cura il suo aspetto esteriore; a tratti assomiglia a una piccola selvaggia cresciuta senza regole, se non le sue.
- Vagheggia di andare a vivere sulla “luna”, un posto in cui nulla e nessuno potrà mai nuocere a lei e alla sorella Connie.
Eppure Merricat sembra la più sensata di tutti, un personaggio talmente assurdo che non può non lasciare una viva traccia di sé in chi s’imbatte nei suoi pensieri tanto illogici quanto giusti. L’unica che riesce a vedere le persone per quello che sono, nonostante la sua reiterata diffidenza e i suoi rituali folli a volte urtino il sistema nervoso.
- I personaggi principali, Constance e zio Julian, sono eccentrici, sopra le righe, esagerati in tutte le loro manifestazioni emotive e vivono tutti e tre insieme in una stranissima armonia, nonostante uno di loro (non si capisce bene chi all’inizio, seppure lo si intuisca) abbia avvelenato l’intera famiglia con l’arsenico. Questa cosa infastidisce come le unghie sulla lavagna, eppure quei tre hanno costruito una tale armonia, che sembrano più felici e amorevoli di una “normale” e canonica famiglia.
Constance soffre di agorafobia e ha tagliato i ponti con l’esterno dopo essere stata processata per l’omicidio della famiglia e poi scagionata. È ossessionata dalla ritualità quotidiana che comprende la pulizia della casa e cucinare manicaretti per la sorella, lo zio e il gatto. Lo fa con una dolcezza e una devozione incredibile, sembra non stancarsi mai di quei gesti sempre uguali e ossessivi che metterebbero a dura prova tutti, ma non lei.
Lo zio Julian, l’unico sopravvissuto all’avvelenamento di massa, è costretto ormai alla sedia a rotelle e gli manca qualche venerdì – ma chi è normale in questo romanzo? È tormentato dal ricordo di quella sera, dell’ultima cena in cui fratello, cognata, nipote e moglie hanno perso la vita.Ogni giorno prende appunti che rievocano, nei dettagli, ogni singolo momento che ha preceduto le ultime ore di vita dei Blackwood.
- I personaggi secondari, ossia gli abitanti del villaggio, l’amica delle sorelle Blackwood che ogni tanto va a prendere il tè da loro (l’unica estranea ammessa in casa), il medico, il cugino Charles, sono così odiosi, meschini, prepotenti, vigliacchi e miserabili che fanno solo venir voglia di gridargli contro tutto il disprezzo che si prova nel vedere come si comportano con Merricat e Connie – nonostante tutto!
- L’ambientazione, potrebbe essere qualsiasi luogo in un’epoca non meglio definita. La Jackson non ci dà molti appigli per collocare la storia in una precisa data e in un preciso luogo, ma ci stordisce con descrizioni così minuziose che la villa dei Blackwood si staglia con nitidezza davanti ai nostri occhi.
- L’atmosfera di insensatezza che aleggia per tutta la storia, una sorta di foschia che avvolge le pagine, rende il mondo interiore delle Blackwood dannatamente affascinante.
Abbiamo sempre vissuto nel castello, tirando le somme, secondo me va letto. A parte il ritmo della storia in sé, che ad alcuni potrebbe sembrare lento, lo stile della Jackson è così elegante e sottile da lasciare il segno.
Titolo: Abbiamo sempre vissuto nel castello
Autore: Shirley Jackson
Editore: Adelphi Editore
Numero di pagine: 182
Prezzo: 18,00 euro
Trama
«A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce»: con questa dedica si apre L’incendiaria di Stephen King.
È infatti con toni sommessi e deliziosamente sardonici che la diciottenne Mary Katherine ci racconta della grande casa avita dove vive reclusa, in uno stato di idilliaca felicità, con la bellissima sorella Constance e uno zio invalido. Non ci sarebbe nulla di strano nella loro passione per i minuti riti quotidiani, la buona cucina e il giardinaggio, se non fosse che tutti gli altri membri della famiglia Blackwood sono morti avvelenati sei anni prima, seduti a tavola, proprio lì in sala da pranzo. E quando in tanta armonia irrompe l’Estraneo (nella persona del cugino Charles), si snoda sotto i nostri occhi, con piccoli tocchi stregoneschi, una storia sottilmente perturbante che ha le ingannevoli caratteristiche formali di una commedia.
Ma il malessere che ci invade via via, disorientandoci, ricorda molto da vicino i «brividi silenziosi e cumulativi» che – per usare le parole di un’ammiratrice, Dorothy Parker – abbiamo provato leggendo La lotteria. Perché anche in queste pagine Shirley Jackson si dimostra somma maestra del Male – un Male tanto più allarmante in quanto non circoscritto ai ‘cattivi’, ma come sotteso alla vita stessa, e riscattato solo da piccoli miracoli di follia.
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[…] secondo libro che leggo dell’autrice e se Abbiamo sempre vissuto nel castello (—> qui la recensione) mi è piaciuto molto, quello che dovrebbe essere il suo capolavoro mi ha lasciata piena di […]