Di solito non lo faccio mai, cioè non mi è mai capitato di vedere prima un telefilm o un film tratto da un libro e poi, solo in seguito, leggere il libro in questione.
L’iter classico che tendo a percorrere è l’esatto opposto, eppure stavolta mi sono smentita: Hill House, la serie tv disponibile su Netflix, è arrivata prima del libro della Jackson, L’incubo di Hill House.
Anche in questo caso è accaduto l’opposto rispetto a quanto mi aspettassi, il telefilm mi è piaciuto tantissimo, il libro mi ha delusa un poco.
Parliamo del romanzo, è il secondo libro che leggo dell’autrice e se Abbiamo sempre vissuto nel castello (—> qui la recensione) mi è piaciuto molto, quello che dovrebbe essere il suo capolavoro mi ha lasciata piena di interrogativi.
C’è da fare una premessa: lo stile di Shirley Jackson – secondo il mio punto di vista – o si ama o si odia. La sua scrittura ha un ritmo piuttosto lento e sonnacchioso, tende a essere un po’ ripetitiva su determinati concetti, è iper descrittiva ed è compulsivamente e minuziosamente ossessionata dall’interiorità dei suoi personaggi a cui, sovente, manca qualche rotella.
Solitamente c’è un personaggio femminile forte non proprio “normale” attorno a cui ruota tutta la narrazione.
Questi possono essere pregi ma allo stesso tempo difetti: sono difetti nel momento in cui ci si perde talmente tanto nelle descrizioni d’ambiente che il tempo si dilata all’inverosimile e il lettore si ritrova a pensare: “Sì vabbè ma sono 40 pagine che non succede assolutamente nulla”. È un difetto quando l’interiorità di Eleonor Vance, protagonista de L’incubo Hill House, a tratti si fonde con quella di Merrycat Blackwood di Abbiamo sempre vissuto nel castello.
È un difetto quando lo stile un po’ onirico che vuole dare un effetto di “vedo-non vedo”, “racconto ma non dico troppo”, “lascio un alone di mistero in ogni parola, in ogni gesto, in ogni dialogo” lascia troppo alle inferenze del lettore che potrebbe a un certo punto della storia trovarsi un po’ smarrito, in difficoltà nel tenere in pugno la situazione.
La trama:
Eleanor Vance viene invitata dal professor Montague – antropologo esperto di fenomeni paranormali – a trascorrere l’estate a Hill House, una casa dal passato cupo, ritenuta infestata da oscure presenze.
L’antropologo decide di chiamare proprio miss Vance per via di un suo trascorso, da bambina pare infatti sia stata protagonista di un fenomeno di poltergeist. Montague, che ritiene che la presenza di persone con una certa “predisposizione” possa favorire il manifestarsi dei fenomeni paranormali, convoca anche Theodora, la quale sostiene di aver sviluppato poteri di percezione extrasensoriale.
A completare il gruppetto si unisce Luke Sanderson, erede dei proprietari di Hill House, giovane attraente e scanzonato con il compito di vigilare sulla proprietà. Eleanor e Theodora non potrebbero essere più diverse: tanto introversa, insicura e fragile è la prima, quanto spregiudicata, espansiva ed eccentrica la seconda.
Per Eleanor l’invito del professor Montague rappresenta l’occasione di andarsene (quasi fuggire) di casa dopo una giovinezza infelice, tutta trascorsa ad accudire la madre disabile e malata.
Mentre il gruppetto comincia a conoscersi, incombe su di loro la presenza ingombrante e tetra di Hill House. Una casa da incubo a cominciare dalla sua architettura: angoli che creano strani fenomeni ottici, proporzioni sballate, corridoi labirintici, porte e finestre che si chiudono senza che nessuno le tocchi, strani scricchiolii delle fondamenta che sembrano che la casa stessa si lamenti. Notte dopo notte, le menti degli abitanti della casa paiono vacillare sotto i colpi della tetra dimora.
Ma la più coinvolta sarà proprio la dolce e timida Eleanor: pare che Hill House abbia una certa predilezione per la giovane, quasi avesse atteso impaziente il suo arrivo.
Nel racconto della Jackson, Hill House diventa essa stessa un personaggio di cui possiamo cogliere respiri e “pensieri”. Una presenza strisciante che invade le menti dei protagonisti, spingendoli al limite delle loro capacità di equilibrio psichico e stabilità emotiva.
Ma l’autrice non farà mai ricorso a effetti speciali da film horror per raccontare i fenomeni di Hill House: la sua scrittura sottile crea uno stato di tensione costante, durante il quale il lettore crede che da un momento all’altro potrebbe accadere di tutto. Il vero sentimento che si genera è un’inquietudine persistente.
Sebbene io non ami l’effetto gridato, il dover per forza ricorrere ai mezzi splatter di un horror più marcato, leggendo L’incubo di Hill House ho avuto per tutto il tempo la sensazione che mancasse “qualcosa”, era come se avessi voluto vedere di più, come se fossi rimasta in attesa – come gli stessi protagonisti – di un accadimento più eclatante che mi facesse tremare davvero.
Ho trovato i personaggi magistralmente ma anche esageratamente odiosi, i loro caratteri sono portati all’eccesso, infastidiscono come il rumore delle unghie sulla lavagna. Ossessioni, paranoie, tic caratteriali, turbe ecc. dipinte con maniacale realismo sono sì sintomo di un’ottima padronanza della psicologia del personaggio ma la Jackson in questo caso pare voglia strafare, ottenendo il risultato di mettere in scena non persone, ma caricature.
Anche i dialoghi talvolta sembrano troppo sopra le righe, seppur si assista a conversazioni a quattro che coinvolgono Eleanor, Theodora, Luke e il professor Montague pare quasi che ognuno parli solo per sé, noncurante dell’altro.
In conclusione, se tornassi indietro di certo rileggerei L’incubo di Hill House, che comunque resta un buon libro di genere, ma ho preferito sicuramente altri suoi lavori e un pizzico di delusione mi ha accompagnata alla fine della lettura.
