Tempo fa mi era venuto lo schiribizzo di partecipare a un concorso, si trattava di racconti brevi di genere: giallo oppure thriller.
In quell’occasione scrissi la storia del commissario Lo Falco, la lessi e la rilessi e non partecipai al concorso. Perché? Forse insicurezza, magari un pizzico di pigrizia e una costante ricerca di “perfezione”.
Lo Falco mi piaceva, la sua indagine e il suo cattivo anche, ma c’era qualcosa che non mi convinceva fino in fondo.
Oggi ho deciso di condividere questa storia con voi che mi leggete, magari vi potrà tenere compagnia mentre siete in treno, in sala d’attesa dal dentista, in fila alle poste.
Io ve la dono, con la speranza che vi intrattenga e vi piaccia.
Ve la lascio qui a mo’ di post, ma potete anche scaricare il PDF alla fine della pagina.
No mi resta che augurarvi buona lettura e, se vorrete, scrivetemi le vostre impressioni su quello che avete letto (Sulla pagina Facebook, con un messaggio privato, con una mail…). Un autore ha bisogno dei suoi lettori anche per migliorare!
MORS OMNIA SOLVIT
di
Eleonora Della Gatta ©

Photo by Brooke Shaden
– 1 –
Il giradischi era bloccato su una nota di un jazz malinconico, le tende di garza bianca si stavano esibendo in una coreografia incitata da una timida brezza; il letto disfatto in mille pieghe, onde del mare in tempesta.
Un raggio di sole, filtrato dalla finestra socchiusa, trascinava nell’aria un rave di pulviscoli frenetici.
Sulle pareti, discretamente gialle, erano attaccati quadri dai diversi soggetti: natura morta, poi un cavallo nell’atto del galoppo, una bambina paffuta dagli occhi di ghiaccio, un’imitazione del più celebre Monet.
Paesaggistica di un interno.
La stanza era viva e respirava, portava profumi e sapori d’idee e sentimenti. Anche nell’assenza recava con sé fantasmi di vari passati, più o meno recenti, un registratore statico di eventi trascorsi e ammucchiati nel tempo.
L’orologio a muro stava per scoccare le otto, la stanza si bloccò, sembrava quasi trattenesse il respiro.
Un rumore di chiave annunciò l’evento atteso.
Lui era tornato dalla caccia notturna.
– 2 –
«Commissario, crede si tratti dello stesso assassino?», Mariani lo guardava con attenzione cercando di scrutare la risposta tra le profonde rughe della fronte.
Lo Falco borbottò qualcosa d’incomprensibile, poi si schiarì la voce e puntellò i neri occhi sull’uomo che lo stava tartassando con il suo sguardo interrogativo.
«Temo di sì», lapidario.
Mariani sussultò impercettibilmente. «Questo vuol dire che ci troviamo di fronte a un serial killer. Un serial killer a Roma».
La considerazione dell’agente scelto, seppur scontata, portava con sé una dose di pesantezza inconfutabile.
Un serial killer a Roma.
Bisognava essere certi al mille per mille prima di dare in pasto alla stampa una notizia del genere.
«Mi faccia fare un telefonata». Lo Falco si allontanò dal brulicare che lo circondava, cercando un po’ d’intimità dietro un pino sofferente.
Con l’occhio presbite, strizzato per la pigrizia d’indossare gli occhiali, scorse la rubrica del suo cellulare. Trovò il numero giusto e rimase in attesa.
«Sono il commissario Lo Falco, mi passi il vice questore aggiunto», deglutì un grumo di nervosismo, «dottor Uberti, abbiamo un problema».
Rimase venti minuti con la cornetta rovente attaccata all’orecchio, la palleggiava tra il destro e il sinistro, pensando agli effetti nocivi di quei cazzo di telefonini.
Giancarlo Uberti, uomo di solida fermezza, nell’ascoltare il ragguaglio del suo uomo perse, nel tono di voce, la sua solita sfumatura pacata.
Aveva tremato per un attimo facendo vibrare le lettere in modo insicuro, trasmettendo come una scossa la gravità della situazione a Lo Falco.
L’uomo tornò indietro verso il team della scientifica, impegnato a eseguire i rilievi di rito sul corpo martoriato ed esposto di quella povera ragazzina.
Una volta finito, avrebbero prelevato il cadavere per portarlo al medico legale che si sarebbe preoccupato di indicare l’ora del decesso.
Ma era un pro forma, il commissario già lo sapeva, il dottor Giuliani avrebbe stabilito la morte della giovane tra l’una e le due di notte.
La notte, per i criminali, era un ventre confortevole gravido di avvenimenti cupi. La notte, con le sue grida e i suoi silenzi, era un palcoscenico plasmabile per istrionici attori del male.
Il modus operandi cominciava a essere chiaro in modo inequivocabile.
«Mariani, dimmi cosa vedi».
L’agente scelto posò velocemente gli occhi gonfi di sonno sul volto risoluto del suo superiore. Obbediente, prese a scrutare il cadavere mutilato, pronto a fare quanto richiesto.
«Vedo una ragazzina di circa quindici anni, con la pelle del volto scuoiata, bulbi oculari mancanti, labbra cucite con dello spago sottile. Vedo lividi su caviglie e polsi, è stata legata con spesse corde». Stefano Mariani esitò, incerto su come continuare.
«Già sarebbe sufficiente per determinare la serialità dell’omicidio, è la terza vittima che ritroviamo nelle stesse condizioni. Oltre allo stato del cadavere, c’è un’ulteriore firma che il nostro assassino ci lascia».
Mariani s’illuminò. «Il biglietto!».
Lo Falco annuì meditabondo: Mors Omnia Solvit.
La morte scioglie tutto.
Una frase di Giustiniano come aveva appurato, inteso in senso più ampio stava a significare che la morte pone fine a ogni cosa. Si trovava sempre nella mano destra della vittima, piegato tre volte, un foglio bianco di comunissima carta a quadretti, scritto con minuti ritagli di giornale.
Niente impronte digitali, fibre, tracce di D.N.A.
Niente sul cadavere, sui vestiti.
Nessuna orma sul terreno.
Nessun indizio.
***
Tutto era cominciato all’inizio di novembre, mercoledì 2, commemorazione dei defunti, primo quarto di luna nuova.
A sentire la criminologa incaricata di tracciare il profilo del presunto serial killer, si trattava di un giorno simbolico, non era stato scelto a caso, denso di una qualche rilevanza psicologica.
L’assassino doveva essere un uomo sulla cinquantina, mente morbosa ma geniale, pedofilo latente, dall’aspetto comune, forse addirittura dimesso e trasandato.
Dopo aver identificato le prime vittime – Lavinia Lozzi 14 anni di Latina e Daniela Chiurli 15 anni di Roma – si resero conto che gli omicidi avvenivano solo di mercoledì, due al mese, il primo e l’ultimo mercoledì del calendario.
Tesi confermata dall’ultima ragazzina scuoiata.
Considerato che il ritrovamento del corpo era stato fatto da un signore intento a correre a Villa Pamphili alle otto di quella mattina, mercoledì 7 dicembre, il quarto cadavere sarebbe spuntato il 28 dicembre.
«Non abbiamo molto tempo per elaborare tesi psicologiche raffinate. Se i nostri calcoli sono giusti, nel giro di tre settimane ci ritroveremo con un altro cadavere tra le mani», Lo Falco lanciò l’affermazione nell’aria, diretta più a se stesso che a qualcuno in particolare.
Mariani era sul punto di aggiungere qualcosa, tanto per colmare il silenzio, ma si rese conto che l’occhio del commissario aveva cominciato la sua danza.
L’agente scelto, che lavorava con lui ormai da tre anni, era in grado d’interpretare anche i diversi ritmi di respiro del suo superiore.
L’occhio ballerino, come lo aveva ribattezzato Mariani stesso, era un movimento ritmato della palpebra destra che avveniva in momenti di tensione estrema, momenti in cui era saggio tenersi a debita distanza dagli umori irascibili di Lo Falco.
Ritornarono al commissariato dopo quattro lunghe ore, tempo in cui l’umidità novembrina del parco pubblico era penetrata con infido strisciare nelle giunture provate di Lo Falco.
Era arrivata una chiamata del medico legale, avevano identificato la vittima: Serena Lessani, 14 anni di Roma. I genitori ne avevano denunciato la scomparsa alle nove della sera precedente, notando con orrore che la loro adorata figlia non aveva fatto ritorno a casa, dopo aver passato il pomeriggio a studiare a casa di una sua amica.
Lo Falco e Mariani si recarono presso l’abitazione della famiglia Franchi per chiedere conferma del fatto che Serena avesse realmente speso il pomeriggio in compagnia di Giulia. La signora Franchi, in evidente stato di angoscia dovuto al senso di colpa che nutriva per la tragica scomparsa della ragazzina, raccontò tra le lacrime gli avvenimenti del pomeriggio.
«Serena è rimasta fino alle sei», la donna s’interruppe cercando di sciogliere il cappio che le serrava la gola, «solitamente le do sempre un passaggio a casa, anche se abitiamo vicine. Purtroppo, a causa di questo, non posso guidare», alzò il braccio destro, ingessato. «È tutta colpa mia», le lacrime s’impadronirono invadenti del volto paffuto della donna.
Mariani azzardò un tentativo di consolazione. «Non dica così signora Franchi. Crediamo che quest’uomo abbia tenuto d’occhio Serena da tempo».
«Questo significa che una volta scelta la vittima, in un modo o nell’altro l’avrebbe presa», aggiunse Lo Falco in tono meno paterno.
La donna tentò di soffiarsi goffamente il naso con la mano sinistra, gli occhi gonfi di un pianto protratto.
«Non riesco lo stesso a darmi pace. Ci separa solo una fermata d’autobus, solo una. Com’è potuto accadere?».
Si trattennero qualche altro minuto a parlare con Marcella Franchi, quando una faccia pallida e stralunata fece capolino nel salone.
Giulia entrò tremante nella stanza, con gesti misurati prese posto sul divano scrutando guardinga i due uomini di fronte a lei, quasi una gazzella pronta allo scatto al minimo fruscio sospetto.
Attendeva un cenno d’incoraggiamento, un gesto amico che l’avrebbe convinta a dire quello che le pesava sullo stomaco. La madre le cominciò a massaggiare la schiena con lenti movimenti circolari, la ragazzina parve rilassarsi.
Lo Falco si protese verso di lei, spostando la seduta sul bordo del divano, congiunse le mani a mo’ di preghiera e cercò di misurare una voce pacata.
«Ciao Giulia, io sono il commissario Lo Falco. C’è per caso qualcosa che ci vorresti dire, qualcosa che pensi possa essere importante per aiutarci a trovare chi ha fatto del male a Serena?».
Giulia rimase con lo sguardo sospeso nel vuoto alcuni istanti, infine si decise.
«Non ne sono sicura. Serena mi aveva detto di essersi innamorata di un ragazzo più grande. Non ne parlava tanto, però diceva di averlo conosciuto alle Vele. Cioè, non è che l’ha mai conosciuto davvero».
«Questo che vuol dire? Cosa sarebbero le Vele?», chiese conciliante Mariani.
«Da quel poco che sono riuscita a farmi raccontare, una sera era a cena in questo ristorante, dove andava spesso con i suoi genitori, tornata a casa aveva trovato una lettera nel libro che si era portata dietro», pescò nella memoria, «in questa lettera c’era una specie di dichiarazione d’amore per lei. Io non l’ho mai letta, ma diceva che era opera di un vero poeta. Il ragazzo della lettera le aveva scritto di averla notata all’uscita di scuola, che lui faceva il quinto scientifico nel nostro stesso liceo e che però si vergognava di parlarle di persona», s’interruppe.
Si mise a rimuginare qualche istante per cercare di formulare al meglio il discorso, era importante essere chiara nell’esposizione, Giulia sapeva perfettamente che in questi casi erano i dettagli a fare la differenza.
Serena era la sua migliore amica, le doveva tutti i dettagli possibili.
«Avevano cominciato questa relazione epistolare, lei era al settimo cielo, diceva che era molto romantico. Si scambiavano lettere tutti i giorni, avevano un posto segreto, non so quale, ma da quello che ho intuito doveva essere da qualche parte nel cortile della scuola».
«Quindi non si sono mai incontrati?», Lo Falco era rimasto molto colpito da quella storia.
«No mai. Lei non lo aveva mai visto, c’era solo questo scambio ossessivo di lettere. Io credo, ecco, credo che lui le abbia dato appuntamento ieri».
«Mentre tornava a casa, dopo essere stata qui?».
Giulia annuì. «Era elettrica, non si concentrava nella versione di greco, guardava in continuazione l’orologio. Io avevo intuito qualcosa, ma non le ho chiesto nulla perché per certe cose lei si chiudeva a riccio».
Si congedarono dalla signora Franchi e da Giulia, ragazzina ossuta e sgualcita che avrebbe portato con sé il ricordo di quell’ultimo pomeriggio con la sua migliore amica per tutta la vita.

Photo by Brooke Shaden
– 3 –
Le guardò sfilare una dopo l’altra all’uscita di scuola, risate spensierate, volti senza preoccupazioni, capelli al vento, era proprio l’età in cui splendevano di più.
Cercò con gli occhi il volto familiare che in tutti quegli anni e nonostante tutto, non aveva mai smesso di amare. Ne desiderava, quanto meno, una copia.
Dell’originale non c’era più traccia, il tempo inclemente le aveva solcato il volto, le rughe profonde delle preoccupazioni le avevano distorto i lineamenti tesi, il corpo appesantito dal cibo e dalla sedentarietà.
Poi la vide, ebbe un tremito di gioia, dovette a fatica trattenere le lacrime che spingevano per uscire allo scoperto. Le somigliava davvero tanto, sarebbe potuta essere lei, quasi.
Lisci capelli castani con sfumature rosse che s’incendiavano al sole, il volto magro e lungo, quel mento leggermente a punta, le labbra a cuore, gli occhi verdi come un turgido quadrifoglio.
Il corpo ancora acerbo, indeciso se rimanere fanciullo o sbocciare in tutta la sua prorompente femminilità.
Una ragazza non più bambina, non ancora donna.
Era l’età in cui splendevano di più.
– 4 –
Lo Falco rimase in commissariato tutta la notte, non si dava pace per quegli omicidi. Guardava e riguardava tutti gli indizi a sua disposizione, convinto che, alla fine, l’elemento dissonante gli sarebbe saltato all’occhio. C’era qualcosa che lo rendeva inquieto, un tarlo che gli rodeva i pensieri intricati, qualcosa di familiare in tutti quei documenti e verbali e dichiarazioni del medico legale.
«Mors omnia solvit», borbottò al vuoto della stanza.
Forse la chiave di tutto stava proprio nel motto che quel folle psicopatico lasciava sulle vittime. Si alzò dalla scrivania indispettito e andò in corridoio a prendere un caffè che sapeva di segatura da quelle macchinette automatiche ruba soldi.
Gli faceva male la sciatica, aveva fame, era stanco e sicuramente doveva avere un aspetto inquietante, ma di tornare a casa non se ne parlava proprio.
Si rimise a leggere le scartoffie che aveva depositato la scientifica per i due omicidi precedenti, lesse le dichiarazioni del dottor Giuliani per la centesima volta.
Ora del decesso tra l’una e le due di notte, probabilmente le labbra erano state cucite mentre le vittime erano ancora vive. I lividi su polsi e caviglie erano stati provocati da spesse corde, strette fino a bloccare la circolazione sanguigna.
Causa del decesso: soffocamento.
Poi le scuoiava e toglieva loro i bulbi oculari. Le incisioni erano rozze, fatte con mano insicura, eseguite con un’arma affilata come un grosso taglierino o coltello da caccia.
Per la troppa forza usata, la prima vittima aveva la tempia sinistra bucata e una leggera perdita di materia celebrale sul collo. Una volta rapite, non le teneva molto in vita, qualche ora, poi le uccideva, infine si dedicava al suo macabro rituale e depositava il cadavere nel luogo prescelto.
Lavinia Lozzi era stata trovata da una prostituta in un campo coltivato a pomodori verso il bivio per Fregene, sull’Aurelia. Erano le sette di mattina. La ragazza non era tornata a casa dopo essere uscita da scuola, frequentava il quarto ginnasio presso il liceo Virgilio.
Il corpo di Daniela Chiurli era stato gettato dentro i bidoni della spazzatura, in un cassonetto all’angolo tra via Alessandro Poerio e via Fratelli Bandiera, zona Monteverde vecchio. Naboo, lo spinone della signora Vanessa Petroni, aveva permesso alla donna di fare la raccapricciante scoperta durante la passeggiata delle otto di mattina.
Daniela era sparita dal pomeriggio, doveva tornare alle cinque dalla lezione di danza, la madre l’aspettava all’uscita della palestra. L’insegnante aveva poi detto che l’allieva non si era presentata in sala, di conseguenza il serial killer doveva averla rapita intorno alle tre e mezza.
Infine, Serena Lessani. Grazie alle parole della sua amica, Giulia, erano giunti alla conclusione che l’uomo doveva aver circuito le sue prede da molto tempo, si spacciava per un loro coetaneo o ragazzo più grande che frequentava la stessa loro scuola.
Dopo lo scambio di lettere protratto forse per un paio di settimane, utile per instillare la giusta dose di curiosità nelle prescelte, il killer dava loro un appuntamento.
– 5 –
Elisabetta, che nome meraviglioso.
Elisabetta, una ragazza dolce, così simile alla sua Beatrice.
Aveva una calligrafia bellissima, l’uomo rigirò tra le mani callose la lettera del suo nuovo amore.
La portò al naso e inspirò godendo, la ragazza aveva spruzzato del profumo sulle pagine rosa, sapeva di muschio e primavera.
Non vedeva l’ora di annusarlo sulla sua pelle, il calore lo avrebbe reso più intenso, vibrante. Questa volta aveva fretta, non poteva aspettare oltre. Una settimana sarebbe stata sufficiente.
La voleva, voleva quegli occhi color bosco, voleva quel volto fresco, voleva sentirla gridare. Prese una penna e, simulando una calligrafia maschile stropicciata, farcì la lettera di frasi irresistibili, di promesse e illusioni. Avrebbe incontrato la bella Elisabetta quel pomeriggio, pregustava già l’orrore sul volto della fanciulla quando si sarebbe resa conto dell’imboscata, quando tutte le sue speranze d’adolescente fiduciosa dell’amore sarebbero state distrutte da un uomo di mezza età con la pancia gonfia e le stempiature incipienti.

Photo by Brooke Shaden
– 6 –
Mariani vide quell’uomo massiccio e caparbio afflosciato sulla sedia come una bambola di pezza, abbandonata da una bambina stanca di giocare con lei. Uscì dalla stanza e andò al bar vicino, prese un cappuccino caldo e due cornetti, uno semplice uno alla crema, e fece ritorno da Lo Falco.
«Commissario», lo scosse leggermente.
Lo Falco trasalì, strizzò gli occhi incerti nel tentativo di mettere a fuoco i contorni della stanza disordinata.
Si asciugò la bava del sonno con il lembo del maglione rosso ruggine. Mariani sorrise comprensivo e gli allungò la colazione senza dire una parola.
Mentre masticava famelico, l’uomo ragguagliò l’agente scelto su tutte le elucubrazioni notturne, insieme andarono a casa di Lavinia Lozzi alla ricerca delle presunte lettere.
Una volta arrivati, si scontrarono con il dolore di una famiglia spezzata, devastata nelle viscere, che non si sarebbe mai più ripresa da quella tragedia. La signora Clara aprì la camera di Lavinia, rimasta luttuosamente serrata. Con timore reverenziale cominciarono a frugare tra gli oggetti sparsi, alla ricerca di un nascondiglio segreto: sotto il letto, nelle tasche dei vestiti, nei cassetti.
Nulla.
Si congedarono da quella casa funestata e, scoraggiati, fecero tappa dalla famiglia Chiurli.
Qui un lutto composto li accolse, i due fratelli più piccoli di Daniela facevano colore nel nero dei genitori. Una camera ordinatissima quella della ragazza, non fu difficile trovare ciò che cercavano.
Mariani sorrise estasiato, Lo Falco tirò un sospiro di sollievo.
Tredici lettere, fogli piegati meticolosamente, strappati da un quaderno a quadretti, frasi dense di una retorica sentimentale al limite del melenso. Sembravano quasi scritte da un ragazzino di dieci anni.
In casa Lessani, la signora le aveva trovate per prima e consegnate ai due uomini senza far perdere loro tempo prezioso nelle ricerche.
Le portarono alla polizia scientifica, poi le passarono alla criminologa.
Attesero alcuni giorni con una speranza crescente, ma il risultato fu deludente: niente impronte, niente fibre, non la più microscopica traccia sulla quale aggrapparsi.
Il serial killer doveva essere ben accorto a celare la sua identità e coprire le tracce.
La criminologa disse al commissario che l’uomo si doveva essere fermato emotivamente a una determinata età, tra i dieci e i tredici anni, in cui aveva vissuto un grosso trauma. Qualcosa doveva essergli capitato che aveva fatto scattare in lui una forte rabbia repressa, il desiderio di riappropriarsi di ciò di cui si sentiva privato.
Quelle affermazioni resero Lo Falco ancora più irrequieto, lo si vedeva camminare insofferente per il suo ufficio, giorno dopo giorno, consumando il marmo già rovinato.
Una telefonata mattutina, fulmine in un cielo già plumbeo, lo fece precipitare a Fiumicino. Centro commerciale Leonardo da Vinci, nei parcheggi esterni, tra cemento e sterpaglia, giaceva la quarta vittima.
Lo Falco guardò la data sul quadrante dell’orologio.
«Oggi è il 21, com’è possibile?».
Mariani non sapeva dargli una risposta, eppure, quando esaminarono il cadavere, si resero conto che si trattava proprio del loro serial killer. Il commissario si chinò sul corpo straziato di quella povera innocente creatura.
Lo passò in rassegna con uno sguardo desolato e impotente, stava per fare spazio agli altri poliziotti, quando qualcosa attirò la sua attenzione. Era un oggetto argentato, tondo, si trovava sotto il tacco della scarpa sinistra della vittima. Prese un fazzoletto dalla tasca e lo raccolse alla moviola.
Una moneta, di quelle da collezione.
Incisa in rilievo una scritta: Mors Omnia Solvit. Una fucilata raggiunse precisa il cuore, quasi gli sembrò si fosse arrestato. Lesto mise la moneta in tasca, nessuno lo aveva visto.
Mariani vide il suo superiore scattare come una molla, precipitarsi verso l’auto, accendere il motore e correre via sgommando come un ubriaco.
– 7 –
Aveva gridato, con quella voce deliziosa, corde vocali giovani e vigorose, era il suo capolavoro.
L’uomo guardò il volto ricomposto della sua ultima conquista. Aveva puntellato bene la pelle, doveva rimanere tesa, i capelli li aveva saldati con la colla, gli occhi spuntavano un po’ troppo, era necessario infossarli di più.
Prese il cofanetto con i trucchi e cominciò a dipingere quell’opera d’arte.
Elisabetta, che somigliava tanto a Beatrice.
– 8 –
Lo Falco si precipitò nel suo ufficio, schivando gli agenti come fossero stati radioattivi. Si chiuse dentro a chiave, prese le foto delle vittime. Non le foto dei cadaveri sfigurati ma immagini che ritraevano le ragazze nei loro momenti felici, primi piani di facce sorridenti.
Si somigliavano molto, questo lo avevano notato tutti, era chiaro che l’assassino riconosceva in loro il suo tipo ideale.
Ma il commissario vedeva qualcosa di più, quel qualcosa che gridava nel bordo del cervello, che reclamava attenzione. Con la respirazione che si stava facendo sempre più affannata, si rese conto che quelle ragazze erano tremendamente familiari.
Riconobbe l’idea che si nascondeva dietro i loro volti.
«Beatrice», disse in un soffio.
Estrasse dalla tasca la moneta. Era stato l’ultimo regalo che aveva fatto a suo fratello Antonio. L’aveva scovata in un negozietto che vendeva cianfrusaglie di ogni genere, a Lavinio, dove i suoi genitori affittavano ad agosto una casetta per le vacanze.
Il proprietario aveva notato il bambino gironzolare incerto, il piccolo Riccardo gli aveva spiegato che voleva fare un dono speciale a suo fratello perché era triste. Il negoziante volle sapere il perché, così Riccardo raccontò all’uomo la storia di Antonio. Bambino problematico, affetto dalla sindrome di Asperger, si era follemente innamorato di una ragazzina più grande di lui di due anni, Beatrice. Aveva nei suoi confronti un atteggiamento ossessivo, accentuato dalla sua malattia.
Un giorno Beatrice, perfida e insensibile, organizzò un bruttissimo scherzo ai danni di suo fratello. Lo fece andare a un appuntamento sulla spiaggia o meglio, lui credeva fosse un appuntamento, poi, aiutata da altri ragazzi, picchiò ferocemente l’inerme Antonio.
Lo umiliò urinandogli sulla faccia, dicendogli con odio che nessuno avrebbe mai amato uno spastico, tanto meno poteva credere di avere qualche speranza con lei. I due ignobili complici si fecero prendere la mano e quasi lo affogarono, solo l’intervento del proprietario dello stabilimento lo salvò.
Si fece dieci giorni di ospedale, labbro spaccato, una costola rotta, polso slogato. Ma soprattutto la sua anima si era spezzata, era esplosa.
Quel giorno, mercoledì 2 agosto 1972, Antonio Lo Falco di anni 12 era morto di dolore, non parlò più, si chiuse in se stesso, cambiò radicalmente.
A volte Riccardo aveva paura dell’espressione nuova che campeggiava sul volto di suo fratello, vuota, distaccata.
«Questa moneta è quello che fa per te, vedi cosa c’è scritto?», il commerciante indicò al piccolo Riccardo l’incisione.
«Cosa vuol dire?».
«Che nella vita tutto si aggiusta, in un modo o nell’altro», spiegò l’uomo rimaneggiando la frase.
Le cose con Antonio peggiorarono di giorno in giorno. I suoi genitori lo portarono da una serie infinita di specialisti, ma nulla cambiò.
Quando suo padre si arrese, cominciarono le litigate furiose con la moglie che non voleva in nessun modo accettare l’idea che Antonio avrebbe vissuto in quello stato catatonico per tutta la vita.
Una mattina, un mercoledì di novembre del 1975, Antonio e sua madre Teresa uscirono da casa e non tornarono mai più. Riccardo e suo padre li cercarono a lungo.
Sembravano volatilizzati nel nulla.
Con il crescere, Lo Falco si convinse che i due erano morti, magari Teresa, sopraffatta dalla disperazione, aveva finito per uccidere il povero Antonio per poi suicidarsi.
Evidentemente però non era andata così.
Dove poteva nascondersi suo fratello? Gli venne in mente una sola idea, la cavalcò al volo, gettandosi in macchina come una furia.
***
Il sole notturno spruzzava chiazze d’argento sul malinconico paesaggio invernale. Erano cambiate molte cose, ma non c’era da rimanerne stupiti dato il tempo trascorso, quarant’anni.
Lavinio si era ingrandita, edifici anonimi lambivano la periferia, le villette più vecchie risentivano l’erosione di salsedine e incuria. Un’ondata di ricordi travolse Lo Falco, alcuni piacevoli altri tremendi.
Si ritrovò a vagare lungo via Agamennone, spingendo piano sull’acceleratore alla ricerca della villetta che aveva visto la sua famiglia felice per quasi due lustri.
Eccola lì, la facciata aveva cambiato colore, un piccolo giardino circondava il piano inferiore, grate ovunque, simbolo di una società sempre più violenta che costringe le persone a incarcerarsi senza colpe.
Sapeva che non lo avrebbe scovato lì, non era quello il suo nascondiglio, perciò proseguì. Una volta arrivato allo sfasciacarrozze esitò, aveva paura. Paura di trovare Antonio, paura di non trovarlo.
Scese dall’auto, valutò la resistenza del cancello di ferro, chiuso da una pesante catena. Non ce l’avrebbe fatta a scavalcarlo, era troppo alto e lui troppo poco atletico.
Lo Falco aggirò il problema, si diresse sul retro sperando che ciò di cui aveva bisogno ci fosse ancora. La magnolia robusta troneggiava intatta, con i suoi rami si allungava come una supplice verso l’interno del cortile. Un paio di tentativi goffi furono sufficienti per agguantare il ramo più basso e issarvisi sopra, maledicendo tutti i pasti sregolati che lo avevano privato di grazia e scioltezza.
Piombò come un sacco vuoto sul suolo polveroso, trattenne un colpo di tosse che quasi lo fece soffocare. Era buio pesto, Riccardo lo sapeva, la notte era sempre stata la migliore amica di suo fratello.
Premurosa lo cullava tra le sue nere braccia, nascondeva i suoi segreti come una compagna fidata, rendeva aggraziati i suoi lineamenti spigolosi, rimodellando l’ovale bianco.
Il capannone interno era stato restaurato, un’ala ulteriore, sulla destra del fabbricato, doveva essere stata aggiunta di recente.
Con passi misurati Lo Falco strisciò verso la timida luce che filtrava da una piccola finestrella sul lato destro. Si affacciò pronto a sussultare, ma all’interno vide solo una sala spoglia con un tavolo e delle sedie, illuminata dalla fiamma traballante delle candele.
Stava per fare dietro front, quando un rumore ovattato lo inchiodò. Qualcosa che rotolava forse, poi un urlo, un pianto sommesso.
Lo Falco mise da parte le cautele ed entrò dalla porta socchiusa, si guardò intorno e vide, dietro al vecchio tavolo, un angusto passaggio mal celato da una tela dipinta.
S’infilò nel pertugio e arrivò alla fine dello stretto corridoio, una scalinata di pietra sbeccata correva verso il basso. Il pianto non era ancora cessato, era un lamento colmo di disperazione. Cominciò a sudare nonostante l’umidità del posto, la mente allerta, pronta all’azione.
Dopo trenta ripidi scalini avvistò a pochi metri, accovacciato in mezzo alla sala, un corpulento uomo vestito solo con un teatrale mantello nero.
Singhiozzava in modo convulso e stringeva qualcosa al petto, il commissario non riuscì a vedere bene l’entità dell’oggetto per via della spessa cappa.
Era ipnotizzato.
«Antonio?».
Silenzio. La figura col mantello nero si bloccò, rigida come fosse stata di marmo. Con un movimento dolorante si rimise in piedi e ruotò per mettersi faccia a faccia col suo interlocutore.
Lo Falco vide ciò che l’uomo stringeva in una mano, un cranio di compensato dal quale pendeva sgraziata la pelle del volto e i capelli di qualcuno. Dell’ultima martire forse. In terra c’era un bulbo oculare, l’altro nel palmo proteso del flaccido uomo.
«L’ho rotto», disse fra le lacrime, «lei era la mia opera d’arte e l’ho distrutta. Non ne troverò mai un’altra come lei, non troverò mai un’altra Beatrice. Aiutami Riccardo».
Lo Falco sentì la bile in bocca, avrebbe tanto voluto vomitare.
«Ti piacciono le mie bambole?», Antonio indicò al fratello il suo museo degli orrori fatto dei volti ricostruiti in smorfie disumane di tutte le vittime della sua follia.
«Sei vivo, sei davvero tu?», in quel momento la linea sottile della sanità mentale che divideva i due fratelli si fece sempre più labile. «Com’è possibile?».
«Mamma si è presa cura di me, ma quando è morta io sono tornato. Dovevo», caricò ogni parola d’intensità straziante.
Nonostante fosse un uomo di cinquantadue anni, Riccardo rivide negli occhi nocciola screziati d’oro il ragazzino che un tempo era stato.
Quello prima di Beatrice, un ragazzino strano e confuso ma molto intelligente, un ragazzino malato ma più sano di molti altri, suo fratello maggiore, Antonio.
«Loro meritavano di morire, sai? Le ho osservate a lungo, erano cattive proprio come lei. Avrebbero fatto soffrire qualcuno e non potevo permetterlo».
«Perché, perché?», era una domanda retorica quella del commissario.
Il perché non solo lo capiva, ma arrivava perfino a giustificarlo. Beatrice lo aveva ucciso quel giorno e ora lui uccideva Beatrice tutte le volte che voleva.
«Sapevo che mi avresti trovato».
«Hai lasciato la moneta di proposito», bisbigliò scosso.
Quasi in risposta, Antonio gettò a terra il cranio rotto, si girò con lestezza e afferrò uno spesso coltello da caccia che stava su una sedia vicino a lui. Con la furia dei disperati, si lanciò addosso al fratello.
Riccardo riuscì a reagire prontamente e fece fuoco. Lo sparo rimbombò da una parete all’altra come l’eco di un’Erinni, Antonio si accasciò a terra privo di sensi.
Il sangue fluì armoniosamente dal suo stomaco creando disegni intricati sul nudo pavimento.
Il commissario Lo Falco si chinò sul cadavere tremando, una strana espressione sul volto invecchiato del killer.
Le labbra erano piegate nell’imitazione di un lieve sorriso.
«Mors omnia solvit», disse l’uomo accarezzando pietoso la guancia di suo fratello.

Photo by Brooke Shaden
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