Che mi piace scrivere a questo punto immagino lo abbiate intuito tutti, sia quelli che mi seguono da più tempo sia le persone che si sono appena affacciate nel mio mondo. La scrittura per me non è una semplice professione ma un vero e proprio modus vivendi, fa parte di me, della mia quotidianità. Mi piace scrivere di tutto: racconti, romanzi, poesie, pensieri brevi, impressioni, stati d’animo…
La scrittura è una mia amica, una tra le più care: a una pagina bianca confido i miei dubbi, le mie speranze o le paure, i sogni; tanto le cose frivole quanto le più serie.
Ho pubblicato due romanzi urban fantasy, un thriller psicologico e una raccolta di racconti horror (più varie altre novelle, trovate tutto disponibile su Amazon sia in ebook che in cartaceo). Ecco, la forma del racconto è un genere letterario che a me piace tantissimo, anche se – ahimè – in Italia non è così apprezzato e diffuso come all’estero.
Eppure i racconti sono piccoli mondi auto-conclusivi e ottimi mezzi per allenare un lettore che da pigro vorrebbe raggiungere distanze più lunghe. Fuori è buio è proprio questo, una raccolta di racconti che spazia nel mondo del fantastico (tra horror puro, fantasy e fantascienza), pubblicato dalla Dunwich Edizioni.

Scrivere horror mi piace tantissimo, al contrario di quanto potrebbe sembrare, mi rilassa addirittura e mi diverte. Inventare mondi incredibili all’interno dei quali potrebbe accadere di tutto è un ottimo modo per lasciare la fantasia a briglia sciolta e tornare un po’ bambina.
Sì perché papà quando ero una bimbetta di 7/8 anni, mi faceva vedere Alien, L’esorcista, Non aprite quella porta e una serie infinita di horror e SciFi movie non indifferente e poi non dimentichiamoci che ho una passione sfrenata per Stephen King, il Re indiscusso del genere.

Ma torniamo ai racconti, anche qui sul blog potrete trovare piccoli racconti di vario genere che ho scelto di “regalarvi”: c’è il giallo Mors Omnia Solvit, c’è un piccolo pezzo di narrativa intitolato Odore di vuoto, poi ancora un vecchio racconto più immaturo ma scritto col cuore Quattro passi indietro. Cliccando sui titoli, se vi va, potrete leggerli.
Oggi voglio donarvi un altro testo facente parte di una raccolta di racconti ormai datata che però non ho mai voluto pubblicare e che si intitola: Pillole di paura: si consiglia l’assunzione di un racconto al giorno, preferibilmente lontano dai pasti.
Il racconto di oggi ci porta a vivere l’intensa (breve) storia del bambino del lago… buona lettura!
Il bambino del lago

Spuntò all’improvviso dal ciglio della strada, col suo pigiamino a righe blu e bianche.
I piedi scalzi e pieni di fango, quegli occhi vuoti e neri come l’antro di un grizzly. Feci appena in tempo a sterzare con un gran fragore, aprii lo sportello dell’Audi lasciandola in diagonale, quasi a formare un posto di blocco. Il bimbo se ne stava inerte, lo sguardo fisso, era in evidente stato di shock. Cautamente gli poggiai una mano sulla spalla.
«Tesoro, sai dirmi che ti è successo?».
Continuava a guardare un punto in direzione del posto da dove era sbucato.
«Il fuoco», disse con una vocina così flebile che sembrava venire dal passato.
Mi guardai intorno preoccupata, non riuscivo a vedere nulla, non c’erano altre macchine o persone nelle vicinanze.
«Il fuoco», ripeté ancora più sinistramente.
All’improvviso mi si gelò il sangue nelle vene, mi precipitai verso il bordo della strada e sporsi la testa nella scarpata. Ed eccola lì, una berlina grigia ribaltata, con le ruote che ancora giravano per forza d’inerzia. Quella povera creatura doveva aver avuto un incidente, forse era l’unico sopravvissuto. Con mano tremante frugai in tasca alla ricerca del mio cellulare, composi il numero dei carabinieri; la veloce risposta dell’operatore mi diede un briciolo di conforto.
«Ho bisogno di aiuto», proruppi con la voce spezzata dall’affanno dell’angoscia, «c’è stato un incidente». Mi veniva da piangere, mi sentivo così disperata.
Il piccolo continuava a fissarmi con una strana espressione dipinta sul volto rosato.
«Signora, si calmi e mi dica dove si trova», gracchiò il carabiniere.
Già, dove mi trovavo? Il cuore accelerò bruscamente, tentai di spulciare quell’informazione nei cunicoli della mente, sembrava che la mia capacità di ragionare fosse andata in black out.
E lui continuava a fissarmi, immobile, quasi crudele.
«Via di Casal Selce, è una strada di campagna, c’è un lago alla mia destra», mi guardai intorno per cercare un punto di riferimento da indicare.
Inaspettatamente il bimbo mi strappò il cellulare di mano e pose fine alla comunicazione.
Sbigottita, lo guardai sgranando gli occhi. «Sei impazzito?».
Insisteva a colpirmi con quello sguardo statico. Compassionevole.
«Vieni», disse tendendomi la manina paffuta, «devi vedere».
Cercai di opporre resistenza, ma il bimbo era risoluto, mi portò di nuovo verso la scarpata costringendomi a guardare la macchina.
«Lo so, stavo chiamando aiuto ma tu», fece un gesto per interrompermi.
«Ti prego, devi guadare meglio».
Lo assecondai per farlo contento, osservai la macchina grigia e le sue ruote impazzite m’ipnotizzarono. Poi un flash, fu come ricevere un pugno in pieno stomaco, sentii il corpo irrigidirsi, la mano del ragazzino stringere più forte la mia. Con un nodo in gola mi girai alla ricerca della mia Audi. Non c’era traccia.
Calai gli occhi annebbiati dalle lacrime sulla macchina nel fosso. Il bimbo mi tirò indietro.
«Ci dobbiamo allontanare, ora arriva il fuoco».
Non finì neppure di dirlo che la macchina esplose, una vampata rosso sangue illuminò il cielo pomeridiano appesantito dalle nuvole.
Guardai quel bimbo nuovamente, non indossava più il pigiama a righe blu, ma una tuta grigia e delle scarpe da ginnastica bianche e nere.
«È tutta colpa mia», disse lui con un tono così accorato che mi spezzò il cuore. «Stavo scappando da mia mamma, avevamo litigato. Non ho guardato la strada… è tutta colpa mia».
Rivissi tutto in un secondo. La pesantezza dei ricordi mi schiacciò al suolo. Mi guardai intorno, il paesaggio era cambiato, c’era un sole brillante che si prendeva gioco di me, avevano pulito la strada e aggiunto un guardrail nel punto in cui io…
«Quanto tempo è passato?», chiesi al ragazzino che ora sembrava avere circa tredici anni.
«Cinque anni. Io abito ancora laggiù», m’indicò un punto lontano una ventina di metri da dove occhieggiava una villetta seminascosta dai pini.
«Oggi è quel giorno… sei prigioniera di questo momento. Non sei mai riuscita a vedere oltre, fino ad ora».
Era visibilmente commosso. Ma anche tormentato e in cerca di perdono. Perdono che non ero in grado di concedergli.
«Sono tanto stanca», dissi sentendomi sempre più leggera.
Poi fu solo buio.