Mi sono accorta di essere diventata davvero nostalgica. O forse sto “invecchiando”, non saprei. La maggior parte delle persone di certo tende a ricordare la propria infanzia e gioventù con affetto, quest’ultima intesa come periodo che va dall’adolescenza ai vent’anni, riconducendole a momenti spensierati e gioiosi.
Io ho vissuto questi due periodi dell’esistenza – allegrotti di per sé, o almeno tali dovrebbero essere – a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta (ma i miei fanno lo stesso ragionamento con gli anni Sessanta). Be’, romanticismo a parte, credo ci siano state annate più belle di altre, e per me quel ventennio è davvero memorabile.

Sono state scritte tra le più belle canzoni e sono stati prodotti film meravigliosi che hanno segnato diverse generazioni, da cui derivano modi di dire che sono entrati nel linguaggio comune.
«Nessuno può mettere Baby in un angolo».
«Quando compro un libro, io leggo l’ultima pagina per prima: così, se muoio prima di finire, so quello che succede».
«Stupido è chi lo stupido fa».
«Me lo farai sapere quando quegli agnelli smetteranno di gridare, vero?»
Parliamo di storie iconiche come La storia infinita, Ritorno al futuro, I Goonies, E.T. l’extraterrestre, Pulp Fiction, Forest Gump, Il silenzio degli innocenti, Terminator, La vita è bella, Pretty Woman, Top Gun, Blade Runner, I Gremlins, Dirty Dancing, Harry ti presento Sally… boh, devo continuare?


Sicuramente anche voi starete facendo il vostro personale revival, scegliendo nella testa quei film o quelle canzoni che hanno fatto da colonna sonora alla vostra adolescenza. Senza considerare che i miei genitori mi hanno fatta crescere con le musiche di Elvis, dei Platters, di Bennato, Dalla ecc. e di tutta la schiera di film in bianco e nero italiani e non o quelli del grandioso Alfred Hitchcock, uno dei miei registi preferiti di sempre.

Tutta questa biblica premessa per dirvi che l’altra sera, mentre cercavo un film da vedere su Prime, mi è venuto un certo sconforto. Reduce da un’altra delusione di cui vi ho parlato qui, provo ad avventurarmi in un horror dove vedo comparire il nome di Uma Thurman tra gli attori, il che mi aveva lasciato ben sperare. Il titolo è Dark Hall… il mio consiglio? Girate alla larga da questo film intriso di cliché imbarazzanti.

Ormai, serie tv a parte – dove menzione d’onore va a Stranger Things, La casa di carta, Narcos, The sinner e compagnia bella –, pare non si riesca a pescare un film decoroso.


In Dark Hall vediamo le solite ragazze problematiche e ribelli che vengono affidate a un istituto in cui dovrebbero venir raddrizzate grazie ai metodi educativi eccellenti e a insegnanti di spicco, capaci di fornire un’istruzione e un rigore di grande spessore. Ovviamente l’istituto si trova ai confini del nulla, in mezzo a un bosco tetro, ovviamente è un maniero antico, super buio ed enorme, e ovviamente c’è un’ala di questo edificio a cui è assolutamente proibito accedere.

Ovviamente sarà una delle prime cose che le ribelli faranno, una volta arrivate. Ovviamente le luci non funzionano bene e di notte arrivano i fantasmi cattivoni. Insomma, c’è tutta una serie di “ovviamente” che fa procedere il film con una certa banalità e che non regala nemmeno un brivido.
Senza contare che, va benissimo, stiamo parlando di un horror, quindi di temi fantastici, ma un senso compiuto il film ce lo deve avere, non è che possono capitare cose a caso tanto per aumentare il minutaggio della pellicola. Pare che ormai se si tratta di film horror o simili, si possa far passare qualunque boiata e uno debba accettarlo solo perché è fantastico/fantascientifico… eh no!

Allora sapete che ho fatto? Sono andata in camera, ho aperto il mio bel cofanetto di Hitchcock e mi sono rivista per la tremilionesima volta La finestra sul cortile.

Non saprei proprio da dove cominciare per descrivere questo film, ci sarebbe talmente tanto da dire che potrei fare tranquillamente un trattato. Credo sia uno dei miei film preferiti – insieme a Shining di Kubrik – di uno dei registi, a mio avviso, più brillanti e bravi dei nostri tempi… ve la ricordate la sigla de “L’ora di Hitchcock”?
Non ricordo più neppure quante volte l’ho visto, affascinata dalle atmosfere, dalle inquadrature, dalla fotografia, dal clima di tensione che si respira per tutta la durata della pellicola. Dalla bellezza dei personaggi, dai dialoghi sapientemente dosati e mirati, dal senso di claustrofobia e impotenza da cui si viene pervasi.
Rear Window non è solo un grande film in sé, ma è anche una metafora del cinema, un film cioè che parla del cinema senza descriverlo apertamente. Attraverso la sua narrazione, Hitchcock ci vuole dimostrare il modo in cui il cinema articola a suo uso e consumo il linguaggio che gli è proprio: quello visivo. Ci spiega con sottili giochi di inquadrature, le componenti linguistiche e tecniche di cui si avvale e in che modo si relazioni con lo spettatore.
In questo modo il regista inglese riesce a creare un duplice livello di allestimento del testo: la vera e propria struttura della narrazione, in cui l’azione filmica prende vita attraverso l’indagine dei protagonisti e la crescente suspense e un sottotesto filmico in cui vengono sapientemente inseriti una serie di elementi che riguardano la struttura stessa del cinema.È proprio l’incipit del film che ci rivela questo doppio gioco portato avanti da Hitchcock: mentre scorrono i titoli di testa vediamo che la macchina da presa inquadra la stanza che ospita un ingessato e appisolato Jefferies.

Se da un lato questo particolare incipit ha il compito narrativo di svelarci dettagli che possano aiutarci con l’identificazione del protagonista che viene presentato, dall’altro sono una messa in bella vista dello spazio scenico che viene richiamato dalla struttura della finestra tripartita e dai confini quadrati della stanza stessa, che mimano proprio i concetti d’inquadratura e prospettiva della macchina da presa.
Lo stesso protagonista, in qualità di fotografo, veicola quei concetti di tecnologia di ripresa e meccanismi di riproduzione del visibile tanto cari al Re della suspense attraverso le varie modifiche di messa a fuoco e tramite la sua investigazione prettamente visiva che ricorre a mezzi tecnici quali il potente teleobiettivo della sua fotocamera.
Nucleo tematico del film è anche quella sorta di voyerismo di cui è vittima Jeff, che è proprio lo stimolo iniziale che gli permette poi di scoprire l’omicidio che si è consumato nell’appartamento di fronte al suo. Voyerismo che gemella in toto quello dello spettatore dei film, descritto come una sorta di Peeping Tom (guardone) dallo sguardo invadente.

Dettagli tecnici a parte, nel mio cuore permane come uno dei film meglio congeniati e articolati. Un grande classico dal sapore intramontabile, da custodire gelosamente nella videoteca come perla preziosa.
Qual è il vostro film del cuore?