«Cocco! Cocco bello!».
«Caramelle de lu mare!».
«Mandòrle, mandòrle fresche!».
Mi pare quasi di sentirlo nelle orecchie l’eco di queste voci cadenzate che si rincorrono allegre sul bagnasciuga.
Otranto, spiaggia del Lido degli Alimini, mare azzurro cielo, venditori ambulanti che elargiscono cocco e indigene delizie. Il lento sciabordio delle onde che ti culla in un dormiveglia di sole caldo e rumori ovattati.
The perfect picture.
Il Salento, terra paterna, mi ha accolta sin da piccola tra i suoi paesini bianchi e levigati e il mare trasparente in cui le barche dei pescatori sembrano fluttuare nel nulla. Salentu: lu sule, lu mare e lu ientu, così dicono i locali. Bellissimo posto, carico di ricordi d’infanzia che mi accompagneranno per tutta la vita.

Rammento il rumore degli zoccoli di legno che echeggiava tra le viuzze del paese muto, i profumi di puccia appena sfornata, l’accento melodioso delle persone che ti salutavano pure se ti vedevano passare trentasei volte in un minuto, i gatti assonnati nei vicoli fioriti e quei panorami mozzafiato, tra bianco e celeste, dove l’acqua si perde con il cielo e gioca a riflettere le nuvole, creando uno spazio sconfinato dove affogare lo sguardo.
Romantico vero? Poetico, fin qui. Azzarderei idilliaco… ma Otranto per me non è stata solo questo. La parte “interessante” del mio soggionro estivo arrivava quando la mattina dovevamo andare in spiaggia. Perché, dovete sapere, tutto il ramo familiare paterno trascorreva le vacanze nella enorme casa dei nonni. Quindi c’erano le due sorelle di papà con i rispettivi mariti e prole al seguito. Tutti cugini di età differente. I nonni, i cugini di papà con i figli, suoceri vari, gatti, cani… fortuna che avevamo a disposizione un intero palazzo diviso in varie unità abitative.

Primo scoglio da superare: metterci d’accordo tra zii, nonni, cugini (fino al sesto grado) su dove andare (Alimini se non c’è tramontana, Porto Badisco se tira vento, Santa Cesarea se ci va lo scoglio, Santa Maria di Leuca se ci va di fare un po’ di chilometri), con quante macchine andare, verso che ora avviarsi e, cosa fondamentale, mia cugina I. sarebbe dovuta in ogni caso starmi attaccata come un mitile, rompendomi l’anima con i suoi cinque anni di meno e capricci annessi.
Il mercoledì poi c’era il mercato e mamma e le zie dovevano assolutamente girare tra cocci e padelle alla ricerca della misura di tegame (26 cm di diametro) che proprio mancava alla loro collezione. Bancarelle deliziose per carità, ma verso il ventisettesimo anno che passi l’estate a Otranto, ti sembrano tutte già viste e non capisci come la tremilesima brocca col galletto pugliese possa arricchire il tuo bagaglio culturale.

Definiti i dettagli che manco la pianificazione di una guerra avrebbe impiegato tanto, arrivavamo allo stabilimento designato, formazione 4-4-2, e prendevamo diciotto ombrelloni attaccati:
«Quale fila volete?», chiedeva il bagnino.
«La più vicina al mare», in coro tutti noi.
La nostra truppa formava questa sorta di posto di blocco ad albero genealogico, mamme a panza all’aria a prendere il sole, ceppo maschile che si eclissava e noi cuginetti a impanarci nella sabbia, facendola finire in posti che voi umani…

Tra i passatempi preferiti con cui mi sollazzavo con le mie consanguinee c’era il gioco del “nuoto sincronizzato”: tappanaso giallo canarino che faceva tanto atleta olimpionico, costumino Arena azzurro puffo e via a fare coreografie come indemoniate tra schizzi salati e litri d’acqua ingoiati.
E poi le mamme che ti cambiavano il costumino, coprendoti col telo da mare 16×34, la fame letale dell’una e mezza, le infradito piene di sabbia e umide che rischiavano di farti spezzare l’osso del collo al primo movimento sbagliato.
Crescendo però, con la mia parte di parentato femminile, i problemi non erano più constatare chi fosse la prima ad arrivare alla boa o chi rimanesse sott’acqua più tempo, a rischio embolia polmonare. Uno su tutti era cercare di passare inosservata nonostante la mia pelle fosse catarifrangente, superare le difficoltà degli spiacevoli effetti che sale e sabbia avevano sulla mia chioma, stoppa inestricabile, che diventava tipo un malloppo unico in mezzo al quale non riuscivo nemmeno a far passare un mignolo.
E se cercavo di dedicarmi alla tintarella, nonostante la protezione 50+++, l’eritema era garantito e pure un giro al Pronto Soccorso, reparto grandi ustionati, a farmi fare impacchi di untuoso e puzzolente Foille. Mia cugina I., cresciuta ma sempre scassapalle, che molestava i bagnini; mia cugina E. che cercava nuove soluzioni affascinanti per mettersi il pareo in modo che fosse fashion e coprisse i rotoletti nel momento dell’immancabile passeggiata bordo riva; zia V. e zia R. che andavano a farsi una “calatina” e, chiacchierando chiacchierando, scorgevi due capocce galleggianti sempre più lontane, sempre più lontane, ancora di più… quasi al confine con l’Albania.

Quando alla fine, trovato il costume giusto, ordinati i capelli con l’olio solare, sistemato il lettino fronte mare-retro sole, tiravo un sospiro di sollievo e mi accingevo a godermi cinque (solo cinque, giuro) minuti di relax… ecco irrompere una musica sparata a tutto volume: i temuti balli di gruppo sulla battigia: «Una mano alla caveza, una mano alla cintura, un movimento sexyyyy»!!!

La cugina I. si fiondava su di me come un’invasata e mi tirava per il braccio:
«Alzati, alzati che si balla, andiamo a fare Rock and Roll!!».
Yeeeeaah.
Il mare: uno sport estremo.